‘Per la stessa ragione del viaggio. viaggiare’
Fabrizio De Andrè

Se quello che mancava era un viaggio per portarmi a scrivere dopo 6 mesi di silenzio, ebbene ri-eccomi al computer su una poltrona bianca, un macbook air sulle gambe che poggiano, a piedi incrociati, sul davanzale di una finestra, oltre la quale c’è il polmone verde della city, Central Park.
Quando cerco di raccontare nei miei post come il mondo sia senza confini, penso proprio alla città che mi ospita, dove vivono più di 9 milioni di persone in rappresentanza dell’intero globo.
A voler raccontare i 6 mesi appena trascorsi in un post, farei un torto ai grandi eventi accaduti e che invece meriterebbero spazi e approfondimenti. Per tal ragione, ho deciso invece di continuare a motivare voi lettori ad essere curiosi di scoprire, conoscere realtà apparentemente diversi, ma che in verità tali non lo sono.
Ed intanto che raccolgo i miei pensieri, è arrivata la pioggia, con tuoni e lampi, facendo dimenticare il Manhattanhenge avvenuto proprio ieri, quando la city godeva di temperature estive e il sole al tramonto si incanalava tra lo skyline della città.
Ho fatto indigestione di serie televisive, alcune nuove, alcune stagioni che hanno seguito le prime di successo, altre ancora che mi ero persa quando hanno debuttato e hanno trovato spazio nelle mie giornate, con la conferma che il più delle volte si trattano di fatti realmente accaduti, oppure diventano precursori di situazioni che avverranno.
Da una seconda sdolcinata stagione di Bridgerton, alla cospirazione del mondo della finanza di Diavoli, dalla vita social di Emily nella città di Parigi, all’epilogo della famiglia Byrde coinvolta nel riciclaggio del denaro di un cartello messicano ad Ozark, ho avuto modo di notare come queste serie dal denominatore comune, cioè produzioni a stelle e strisce, per quanto fedeli agli stereotipi del mondo patinato holliwoodiano, il più delle volte falsa o ne amplifica la realtà di una vita quotidiana che nel States può risultare dissonante agli occhi di chi vive l’America rurale.
Lontana dalle grandi e blasonate metropoli, dove le serie televisive tra cui quelle sopra citate (ad eccezioni di Bridgerton e Diavoli) vengono scritte e girate, com’è realmente l’America? Alle volte mi piace scherzarci su rispondendo a chi mi chiede con attenta curiosità di come è vivere negli Stati Uniti, cito sempre il film “The Texas Chain Saw Massacre” che nella versione italiana prende il nome “Non aprite quella porta”.
L’America di sicuro non è tra i paesi più pericolosi ma con tutta probabilità è il luogo dove entrare in un supermercato può significare di incontrare un folle armato fino ai denti. L’America è un paese dove non c’è strage senza un mea culpa che puntualmente arriva e che fa solo da prove generali alla prossima e così via dicendo, poiché dopo il dolore e l’indignazione non succede nulla.
Erano gli anni universitari quando fui rapita da un documentario di Michael Moore che, partendo dalla strage di Columbine, mostrava l’ossessione per le armi e le conseguenze drammatiche che ne derivavano.
Qualcuno sentenzia invece che la colpa sia da imputare ai videogiochi violenti, qualcun altro al disagio provocato dalla società contemporanea, eppure in altre parti del mondo esistono i videogiochi, esistono i disagi mentali ma mai come in America esiste un luogo dove si spara con tanta facilità, probabilmente dettata dalla semplicità con la quale si ha accesso alle armi. Non credo che questo sia dovuto a causa di un atteggiamento belligerante degli americani, quanto invece da ciò che essi stessi considerano un diritto sancito dalla costituzione, quindi in nome della libertà, del diritto della difesa personale.
Per noi europei tutto ciò può apparire così esasperato per un Paese “giovane” che non conosce il razionalismo con il quale si fondano i Paesi europei. L’America, il Paese dei moralismi assoluti, dei puritani, degli avvistamenti UFO, dell’odio razziale, dei fermenti religiosi e un laicismo forzato, dove si stampano banconote con la frase “in God we trust” e sui campi sportivi si canta “God bless America”.
Ecco, questa è l’America ai miei occhi. Per me che ho l’occasione di viverla da un po’ di anni, per rapporti personali intrecciati sul piano lavorativo e personale, arrivo a considerare l’America come un giovane ragazzo dall’impeto irruente, che ha sete di conoscere, che agisce nell’incoscienza della sua giovane età, che si sente forte ed invincibile per affrontare ogni giorno nuove sfide, che ha colpi di testa e che magari un giorno crescerà ed imparerà dai suoi stessi errori.
La società contemporanea americana quanto quella dei Paesi aldilà dell’oceano, è caratterizzata da un linguaggio d’odio che passa dai leader politici e attraversa i talk show, fino ad arrivare all’utente ultimo che sfoga le proprie frustrazioni sui social. Ma con questo entriamo in un altro discorso di cui parleremo in un prossimo post.
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